Sunday, 22 March 2009

La retorica dell’integrazione

Di seguito, la prima parte di un testo che ho scritto per il secondo numero dei Quaderni Viola, Alegre, 2009.

È dall’epoca dell’approvazione della legge Turco/Napolitano (Legge n. 40, 1998) – primo testo organico in Italia in materia di immigrazione – che il termine “integrazione” ha iniziato ad essere impiegato estesamente, sia nel senso comune, che nel dibattito accademico. Con la legge Turco-Napolitano, infatti, l’Italia dismetteva i panni di paese di emigrazione ed entrava ufficialmente nel novero dei paesi di immigrazione; toccava, pertanto, mostrare una certa apprensione per l’inserimento sociale e culturale degli immigrati (e non solo per la resistenza delle loro braccia nella raccolte stagionali e nell’arte della lavatura dei piatti) ed elaborare delle politiche volte, appunto, alla loro “integrazione”. Ma come fare?
Nell’era Prodiana l’illuminazione non poteva che venire dall’Europa. Fu così che l’allora Governò Prodi istituì una commissione ad hoc, la imbottì di esperti, la incaricò di spiegarci cosa dovessimo intendere per integrazione e di elaborare delle strategie politiche per la sua implementazione. La commissione fece questo, e ancora di più: non solo produsse (meritoriamente) il primo rapporto approfondito sullo stato dell’arte dell’immigrazione in Italia, ma riuscì anche nell’impresa (meno meritoria) di dimostrare che l’integrazione è donna, o meglio il suo cliché, ossia “retorica dei buoni sentimenti”. A presiedere la commissione, non a caso, fu chiamata una donna, la sociologa Giovanna Zincone, la quale partorì un concetto di integrazione di sesso femminile: essendo il ruolo atteso della donna, in famiglia come in politica, quello di favorire il dialogo e portare la pace, l’integrazione non poteva che essere pacifica, anzi meglio, “ragionevole”. Questa doveva essere promossa dal “buon governo” e andava intesa come “buona vita”, “interazione positiva” e “pacifica convivenza” (cfr. Zincone, 2001).
La terminologia era caramellosa e impacciato il suo equilibrismo incerto tra assimilazionismo e pluralismo. Tuttavia, nella sua vita breve e nel suo impatto tutt’altro che limitato (almeno nel dibattito accademico), la nozione di “integrazione ragionevole” schivò la questione dei diritti e delle condizioni materiali di vita della popolazione immigrata e contribuì a mantenere il dibattito sull’integrazione in termini puramente retorici, culturalisti e femminei. In un dibattito siffatto, come vedremo nel prosieguo del testo, le donne immigrate infatti hanno assunto una funzione centrale e il destino dell’integrazione sembra essere letteralmente nelle loro mani.

Aggiungi un posto a tavola...che c’è una serva in più.

Per comprendere fino in fondo la retorica dell’integrazione risulterà utile condurne la pars destruens attraverso il rivelamento della logica sessista e razzista implicita nella declinazione femminile del concetto di integrazione.
Nella sua accezione di senso comune il termine integrazione designa un inserimento sociale riuscito, in termini sia economici che culturali. Le statistiche sull’immigrazione in Italia mostrano tassi di attività piuttosto elevati nel caso delle donne immigrate e buoni tassi di occupazione. Inoltre, a differenza dell’occupazione che coinvolge gli uomini immigrati, percepita in termini di minaccia economica e di concorrenza sul mercato del lavoro, l’occupazione femminile viene avvertita diversamente. Le immigrate, infatti, non attentano al lavoro delle donne ‘native’, al contrario: lo rendono possibile. Esse risultano, perciò, più integrate dei compagni maschi – almeno in termini socio-economici – e sono le benvenute nell’arena lavorativa. La ragione è presto detta. Come è noto, la stragrande maggioranza delle donne immigrate in Italia lavora come domestica e/o badante. L’aumento dei tassi di attività e di occupazione delle donne italiane, infatti, per quanto contenuto non ha condotto ad un aumento dei servizi pubblici di cura (per bambini e anziani) ma alla rinuncia alla maternità o al ricorso ai servizi offerti dalle donne straniere da parte delle donne italiane.
In questo modo le donne immigrate non hanno fatto altro che sostituire le italiane nel loro ruolo di cura, a partire dal presupposto che quest’ultimo costituisca una vocazione tipicamente femminile. Il paradosso dell’integrazione declinata secondo il genere, pertanto, consiste nel fatto che il suo successo è una sconfitta per le donne. L’astrazione vuota dell’integrazione come capacità economica e scambio culturale, quando riempita del suo contenuto concreto si rivela essere la realtà della cristallizzazione dei ruoli tra i sessi, della monotonia del lavoro recluso e non qualificato, dello sfruttamento e dello svilimento della donna in quanto serva di un altro colore. La condizione della donna immigrata che si suppone “integrata”, così, riflette la condizione di subalternità della donna in generale.